Bologna, una sera d’estate

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by Fansonia @chiscoforever – 

Io e la Lella ci conosciamo dalla prima Liceo.

Milano, anni di piombo – senza voler essere più precisi – Liceo Linguistico Manzoni, che allora trovava sede in un affascinante palazzetto patrizio con aule e corridoi affrescati dal Tiepolo, la cui vistosa decadenza pareva non preoccupare l’amministrazione milanese, all’interno dei Giardini Pubblici di via Palestro. Era una scuola che ospitava molti figli di “sciuri”, provenienti da famiglie milanesi decisamente benestanti, ma vi erano alcune eccezioni di estrazione piccolo borghese (ma proprio piccolo), come la sottoscritta e la Lella.

Mi piace pensare che all’inizio fu proprio quella comune matrice ad avvicinarci e ad unirci in un allegro sodalizio, che transitò attraverso gli anni dell’Università (Statale, naturalmente) e che si mantenne per molti anni anche dopo che incominciammo a lavorare, pur limitandosi alle uscite serali. Va detto che fu in quel periodo della nostra storia che demmo il meglio di noi stesse, in molti sensi. Un paio di tragici errori di valutazione, da parte di entrambe, separò le nostre strade mettendoci di mezzo parecchi chilometri e molte sofferenze. Ma poi ci ritrovammo, raccogliemmo insieme i cocci e qualche brandello dell’antica fierezza e fummo pronte a farci compagnia, avviandoci verso una solitaria maturità.

Curiosamente, vi fu una singolare simultaneità di eventi nella nostra vita, anche quando ci imbattemmo – tutte e due – nel compagno che non aspettavamo più. Non lo stesso, fortunatamente. Da allora la nostra frequentazione è divenuta sporadica, ma il contatto non si è mai interrotto: capita ancora che ci si senta dopo qualche mese di silenzio, senza che sia mai necessario colmare momenti di imbarazzo iniziale con parole di circostanza. Semplicemente, si riprende un discorso interrotto, non importa quanto tempo prima. I tardi anni ‘80 coincisero con il periodo di massimo splendore, per me e per la Lella, e fu anche un periodo di grande impegno politico.

Scoprimmo Cuore attraverso l’Unità, che a un certo punto compravamo solo per avere l’inserto settimanale, perché nel frattempo avevamo optato per la neonata e molto radical chic La Repubblica. Brindammo quando Cuore si staccò dal quotidiano e visse di vita propria, e molti anni dopo, quando su Twitter mi capitò di imbattermi in alcuni componenti della Redazione di Cuore ai tempi di Claudio Sabelli Fioretti e di Michele Serra mi sembrò di ritrovare dei vecchi amici.

Attraverso questa frequentazione virtuale feci in seguito un’altra scoperta: uno degli ex Cuore negli anni ‘80 aveva messo insieme, con altri amici sufficientemente squinternati, una rock band dal nome assai suggestivo “Lino e i Mistoterital” che fu aggregata, a mio avviso un po’ troppo semplicisticamente, al filone rock “demenziale”.

E il 13 luglio 2012, per celebrare il trentennale del Gruppo, grande reunion al BOtanique di Bologna. 13 luglio. A Bologna. Pensai subito che avrebbe fatto un caldo boia.

Eppure, leggendo la notizia, all’improvviso provai un leggero formicolio alla nuca, come quando sto per perdere il controllo. Lo persi.

“Lella? Ciao, c’est moi. Ho una proposta da farti”

“ Ah sì, grazie, anche qui stiamo tutti bene. Sarebbe?”

“Non ho presentimenti negativi, quindi state bene. Vieni con me a Bologna venerdì 13? A vedere il concerto del trentennale di Lino e i Mistoterital? “

“ Lino chiiiii?”

MistoTerital. E’ la band di un ex-Cuore, suonano rock un po’ alla Ramones e mi sa che fanno casino uguale. Partiamo nel primo pomeriggio, dormiamo a Bologna e torniamo sabato mattina.”

“E’ una proposta così sconclusionata che accetto”.

Questa è la Lella.

Non la sentivo da più di un mese. Avevo agito d’impulso, ma più ci pensavo, più mi convincevo del bisogno di fare un passo fuori dal sentiero di troppe quotidianità. E poi mi allettava la prospettiva del viaggio con la Lella, alla ricerca di una rassicurante intimità con un’amica con la quale avevo riso e pianto quasi in egual misura. No, più riso che pianto, in realtà.

Venerdì alle 2 e mezza del pomeriggio ero a Milano, viale Certosa. Casino il solito, lo skyline sempre leggermente diverso da come lo ricordavo dall’ultima volta, ma chissà se era solo un’impressione. Quando arrivai davanti al portone di casa della Lella lei era già lì, divisa d’ordinanza (jeans e maglietta), borsone a tracolla e occhialoni tartarugati da diva.

La Lella è sempre stata bionda e morbida quanto io ero e sono castana e spigolosa, e questa considerazione vale anche per il carattere ed il modo di porsi di fronte al mondo. Per dirne una, ai tempi del liceo lei girava per casa con ciabattine dorate col tacco, io con iPescura, lei dormiva con vezzosi pigiamini merlettati, io con le t-shirts dei Peanuts o delChe, a seconda del mood del momento. Così capitava spesso che se con me i ragazzi si confidavano, con lei si sdilinquivano, e mentre lei viveva autentiche (benché spesso fugaci) passioni, io intrattenevo discontinui ma duraturi rapporti di amicizia dove il sesso praticato occasionalmente ed in assoluta serenità diveniva, anch’esso, niente di più che uno scambio di confidenze tra amici.

Ricordo che ai tempi dell’Università un’estate andammo in vacanza in Sardegna. Frequentavamo spiagge libere dove transitavano spesso venditori ambulanti di vario colore i quali, se intuivano un minimo di disponibilità, diventavano appiccicosi come una colata di vinavil.

E’ seccante sdraiarsi su una spiaggia in Sardegna (spesso dopo aver sostenuto una lotta estenuante contro il vento per stendere l’asciugamano) con un tizio appollaiato di fianco che cantilena in continuazione “guarda signora bella, io vende te per poco”.

Quindi dissi alla Lella “mi raccomando, se ti si avvicina uno di questi poveri cristi cerca di stare sulle tue – non ti chiedo di essere sgarbata, ma perlomeno evita di essere incoraggiante”.

Arrivammo in spiaggia, scegliemmo un punto che ci pareva adeguato, sventolammo gli asciugamani e, come per magia, si materializzò un tizio sufficientemente scuro da non poter essere abbronzato, paludato in 6 o 7 tappeti e con delle borsate di monili vari. Io fissai immediatamente assorta ed accigliata l’orizzonte, la Lella si girò, lo guardò, e al suo “buongiorno, bella signora” rispose con un cinguettante “buongiorno a lei!”.

L’avrei strozzata. Ricordo che comprai una cosa qualsiasi pur di avere una chance di congedare l’ambulante in meno di un’ora. Ne nacque una discussione estenuante sull’umana solidarietà e sulla coerenza politica. Bei ricordi.

Comunque, la Lella saltò decisa in macchina come se ci fossimo lasciate la sera prima. “calma, amica, tu che ci vedi bene guidi, impostiamo il navigatore e via” e così dicendo scesi per cederle il posto di guida.

Ci abbracciammo senza dire nulla. Sedute in macchina finalmente ci guardammo, con occhio dapprima critico ma subito compiaciuto: comunque stessero le cose, ognuna di noi vide nell’altra quel che si aspettava di vedere. Dinanzi a noi circa 3 ore di viaggio o anche più. Ci occorrevano per riannodare diversi fili trascurati e per trovarne di nuovi da annodare. La mia macchina non era una Thunderbird azzurra e noi non eravamo Thelma & Louise, tuttavia in quel momento avevamo il medesimo desiderio di fuga, unito tuttavia alla rassicurante consapevolezza che l’indomani avremmo voluto tornare a tutto ciò che oggi stavamo facendo finta di lasciare.

“Cià, ma spiegami un po’ di sto concerto – non ho capito, suona qualcuno che conosci?”

“in un certo senso sì, il front man è uno che seguo su Twitter, ho selezionato a prescindere tutti gli ex-Cuore che ho trovato, e sono come me li aspettavo:divertenti, caustici, interessanti”.

“ma non hai detto che avevi smesso?”

“di far che?”

“di seguire gli uomini, non avevi detto “tempo scaduto”?”

“smettila, d’accordo che sei refrattaria al social network, ma saprai che su Twitter ci si segue, ci si followa, ovvero si sceglie con chi comunicare. Lella, evolviti però”

“ma evolviti cosa, a mia nonna piaceva Cary Grant e lo vedeva al cine e poi ne parlava come se fosse uno di casa, non c’è tutta sta differenza. E se la Reggiani ti sentisse dire ci si followa….”

La Reggiani, la nostra collerica prof. di inglese al Liceo. Mi venivano i brividi solo a pensarci; persino suo marito era scappato di casa. Però ciò che mi aveva insegnato lei lo ricordavo ancora oggi: quando si dice efficacia di un metodo.

Intanto la signorina Audi Navigation System ci avvisava con voce dolcemente perentoria che bisognava “ prepararsi a una rotatoria”. Dissi alla Lella che mi ero sempre chiesta se avessi dovuto pettinarmi o mettere il rossetto per superare come si deve una rotatoria: lei mi fece notare che forse sarebbe bastato che dicessi meno stupidate.

Chissà però se dopo la rotatoria avrei potuto riprendere. Tra una chiacchiera e l’altra, la Lella mi sbirciava pensosa. “non preoccuparti, va tutto bene. Ho solo bisogno di prender fiato. Comunque la battuta sugli uomini che ho seguito potevi pure risparmiartela, anche perché in realtà li ho sempre preceduti, semmai”.

La mia osservazione ci offrì lo spunto per tirare in ballo volti e nomi e situazioni che avevano ormai la polvere di 30 anni o giù di lì. Mi ricordai a un tratto di un tipo che ora ci sembrava talmente poco frequentabile che nessuna delle due si voleva assumere la responsabilità di avere avuto una relazione, seppur occasionale, con il tizio, attribuendola con assoluta sicurezza all’altra. Temevo che avesse ragione lei – ne ero quasi certa – ma non glielo dissi. La Lella guidava un po’ alla boia d’un giuda, riuscendo a prendere buche immaginarie persino su un’autostrada appena asfaltata.

“sai Lella, è dai tempi delle elementari che mi sento dire che quel che faccio va bene, ma potrei fare di più. Quali prerogative possiedo in virtù delle quali potrei fare di più? E rispetto a quale standard, poi? Io sono stanca di vivere con la sensazione di essere sempre leggermente al di sotto delle aspettative.

E poi me ne frego delle altrui aspettative: “Lella, sto cercando una via d’uscita, prima che sia troppo tardi”.

“troppo tardi per cosa, esattamente? O per chi?”

Avevo sempre apprezzato la razionalità ed il senso pratico della mia amica, sempre pronta ad acchiapparmi per la coda quando rischiavo di volare troppo alto. Il fatto di aver diradato la nostra frequentazione, anche se per motivi puramente logistici e dipendenti da impegni professionali e familiari, mi aveva privata di questo prezioso aiuto, tanto che qualche volta ero stata tentata di entrare in analisi. Poi invece avevo deciso di comprare un cavallo, di adottare un certo numero di gatti ed infine di sposare un uomo tanto solido ed equilibrato quanto io sono insofferente e tendente alla divagazione. Tutto ciò funzionava piuttosto bene, mi mancavano tuttavia i momenti di assoluta confidenza che si vivono esclusivamente con un’amica.

“voglio rallentare, Lella. Non riesco più a conciliare le mie diverse anime, voglio sceglierne un paio al massimo e abbandonare le altre. Così sono costantemente distratta, passo attraverso il tempo senza mai essere completamente presente al momento vissuto, il che implica fatalmente la mancanza del ricordo”.

La mia amica taceva. Sapevo che stava probabilmente pensando che sono sempre stata inutilmente complicata: parlare con lei mi aiutava sempre a ridimensionare il mio perenne disagio. Tra rievocazioni, canzoni e sciocchezze il nostro viaggio scorreva tranquillo – a parte un momento di autentico smarrimento quando, poco prima di Parma, Frau Gertrude, ovvero la voce teutonicamente flautata di Audi Navigation System, interferì con gli Smashing Pumpkins (cosa di per sé già seccante) per ingiungere “appena possibile effettuare una inversione a U”.

In autostrada. Questo ne provocò l’immediata estinzione, con un cerimoniale del tutto simile a quello della storica eutanasia di Hal di kubrikiana memoria, ma con conseguenze certo più contenute. Arrivammo a Bologna intorno alle 6 del pomeriggio e, grazie alle indicazioni di un paio di passanti, meno precisi ma tanto più simpatici di Frau Gertrude, raggiungemmo senza grosse difficoltà il parcheggio dello sferisterio, dove ci avevano consigliato di lasciare l’auto.

La zona universitaria era poco distante, il tragitto a piedi ci avrebbe consentito di ammirare gli edifici storici della più antica Università del mondo, l’Alma Mater Studiorum.

Mi ha sempre affascinato l’idea dalla quale nacque questa antichissima scuola: un’organizzazione libera e laica di studenti che decisero di scegliere e finanziare autonomamente i propri docenti. Quanta modernità e quanta libertà di pensiero in questa idea, che risale addirittura al secolo XI, per quanto evidentemente condizionata dal censo.

Nello splendido Archiginnasio, che fu l’antica sede dell’Università, si trova tuttora un complesso araldico di circa 6000 stemmi studenteschi. Alla bellezza del luogo (peraltro già oggetto di sporadiche frequentazioni negli anni passati) eravamo preparate; ciò che invece ci aggredì con inaspettata ferocia, quando abbandonammo il paradiso artificiale creato dal climatizzatore dell’auto, fu la cappa di calura che gravava implacabile sulla città e che ci avviluppò all’istante, vischiosa ed avvilente.

Decidemmo di abbreviare il nostro girovagare e, tagliando per Piazza Maggiore, ci dirigemmo verso i giardini di via Filippo Re. Situati nella zona universitaria, i giardini di via Filippo Re si sviluppano attorno a quel piccolo gioiello che è l’antica Palazzina della Viola. Il Comune di Bologna ha avuto la felicissima idea di utilizzare i giardini per ospitare manifestazioni di musica dal vivo di vario genere, dando vita allo spazio “BOtanique”.

All’interno dei giardini bighellonava già una discreta folla, l’atmosfera era quella svagata e felice del passeggio sul lungomare, con in più la percezione di attesa di qualcosa che avverrà, di lì a poco. Fummo immediatamente e consapevolmente condizionate dall’ambiente e ci guardammo intorno come normalmente si fa il primo giorno di vacanza, quando ci si lascia blandire da un paesaggio suggestivo e si studia il campionario di varia umanità alla ricerca del simile e del dissimile.

“Pensavamo di avere un sacco di tempo, e all’improvviso ci accorgiamo che è arrivato il momento di stare bene attenti a non sprecarne neanche un attimo”. Mi accorgo che la Lella ha lo sguardo remoto di chi insegue un ricordo lontano.

“Già. Sai Lella, ho spesso pensato che se avessi avuto un figlio sarei stata costretta a crescere, ad un certo punto. E invece, è andata così”

“Non dire sciocchezze: abbiamo conosciuto un sacco di figli che a vent’anni erano più maturi e responsabili delle loro madri. E poi ti fa comodo definirti immatura, così ti chiami fuori. Lo hai sempre fatto, quando semplicemente non ti andava di uniformarti a certe regole”.

Eccola la mia amica Lella, la sorella grande che non ho avuto: come darle torto? Ma del resto, continuo a ripetermi che quando la vita mi costringerà ad un inevitabile ribaltamento di ruoli, prenderò atto che i tempi sono cambiati e mi adeguerò. Nel frattempo, coltivo tenacemente tutte le mie passioni ed inseguo l’attimo che fugge.

“Lella, ma ti ricordi quando attraversavamo Milano di notte sul tuo maggiolino cabrio e gridavamo a squarciagola “io sono viva”??” “E come no. Erano i tempi in cui progettavamo di girare il mondo facendo le hostess, che adesso fa brutto definirle così perché sono assurte al rango di “assistenti di volo”, frequentavamo gli anarchici del Circolo di Scaldasole, ci entusiasmavamo leggendo Camus e la Comune di Parigi e la sera giravamo per i locali sui Navigli, dove tu cantavi con il tuo moroso, il Nando, che ti accompagnava con la dodici corde. Ma poi Nando che fine ha fatto?”

“Ah, ha tentato di sfondare con una band con alcuni amici pugliesi, uno di loro adesso conduce programmi di giardinaggio in tv e porta la stessa coppoletta sfigata di allora, gli altri chissà dove sono. Lui ha poi sposato la ricca signora con dieci anni più di lui per la quale mi ha mollata 4 a 0, ricordi? Mi avete stressata per anni con sta storia che ero l’unica donna mollata per una molto più vecchia, di solito accade l’inverso. Alla fine, per reazione o per difesa, me ne feci addirittura un vanto”.

“E come potrei aver dimenticato? Sono stata ad ascoltarti per ore mentre facevi a brandelli la vostra storia e spaccavi il capello in quattro alla ricerca dei motivi logici per cui era finita.”

“Non ero pronta ad accettare il fatto che a volte l’amore finisce, e basta. E ti resti solo tu, ed è da lì che devi ripartire. E’ che poi, a furia di errori e di rinascite dalle proprie ceneri, si esaurisce la capacità di darsi incondizionatamente, e nelle relazioni successive si tende a restare sempre con un piede fuori.”

“Il che non è proprio un male”.

“No. Ma è la fine dell’amour passion. Ne prendo atto serenamente”.

“Ma dei sogni di allora, tu che ne hai fatto? Sei riuscita a realizzarne almeno uno, almeno in parte?”

“Bè, le mie vicissitudini professionali le conosci bene, ed è chiaro che, un po’ in conseguenza di scelte un po’ per fatalità, non è in quell’ambito che ho trovato le maggiori gratificazioni. Ma qui si dovrebbe parlare di progetti, non di sogni, ed è quindi un’altra storia. L’incontro con il compagno che non cambierei con nessun’altro ha soddisfatto un’aspirazione che appartiene all’età adulta, come pure il fatto di essere andata a vivere in campagna, che è poi collegato e dipendente dall’incontro con lui.

Ma fin da quando ero bambina sognavo un cavallo, e in estate passavo lunghe ore solitarie a cavalcioni della ramificazione del tronco di un vecchio albero nel giardino della nonna, immaginando di essere in sella al mio destriero.

E un giorno sono riuscita ad averne uno, e ad acquisire nel corso degli anni un discreto livello di preparazione, sostituendo le doti innate che non ho mai avuto con la caparbietà e la passione. Ogni volta che salgo in sella ed entro in simbiosi con il cavallo io provo una sensazione di felicità che è persino difficile da spiegare: è gratificazione, è calore, è coscienza di sé, è armonia, è lontananza siderale da tutte le frustrazioni legate ad altre situazioni che costituiscono il quotidiano.

E’ pace. Ecco, questo è un sogno realizzato: solo uno, ma non sono ancora morta, magari riesco a realizzarne anche un secondo. Ci lavoro, comunque.”

“Io invece sono sempre stata troppo concreta per sognare. Ho spesso scambiato per sogni delle semplici aspirazioni, alcune ho potuto realizzarle, altre no. Ma i sogni sono altro. Mi resta il piccolo rimpianto di non aver saputo sognare, ma infine ho fatto la vita che volevo, e sono grata al destino che non mi ha intralciata più di tanto”.

Non avevamo voglia di cenare; tacitamente d’accordo passeggiavamo tra la gente, rassicurate dalla reciproca compagnia. Era ormai sera, ma il caldo era diminuito di poco. La luce si era fatta più morbida, sul palco c’era movimento; nel nostro indolente girovagare non avevamo pensato ad avvicinarci, ed ora era troppo tardi. All’improvviso il palco si animò, e nel giro di qualche istante le rumorose chiacchiere degli astanti si ridussero ad un sommesso brusio, e “fai mò silenzio, che incominciano!”. Io e la Lella sgomitammo un po’ con discrezione per cercare di avvicinarci, ma rimanemmo ben presto incastrate tra due signori un po’ spelacchiati ma chiaramente velleitari, accompagnati dalle rispettive e adeguate consorti, ed un gruppo di variopinti adolescenti dei quali mi affascinava soprattutto il linguaggio: un incomprensibile codice con cadenza emiliana che mi riportava alla memoria certi pomeriggi d’estate a Fabbrico con i mei cugini, quando ci divertivamo a saltare a piedi uniti le profonde spaccature del terreno causate dalla siccità, e già solo per quello mi ispirarono simpatia. Mi guardavo in giro, e notavo che il pubblico era incredibilmente eterogeneo e trasversale, per sesso, età ed aspetto: coppie stagionate con molto passato e poco futuro, ma stasera chissenefrega, giovani famiglie con bimbi al seguito, trentenni ancora indecisi se uscire dall’adolescenza o restarne intrappolati per sempre e adolescenti autentici in piena tempesta ormonale. E anche coppie di amiche in libera uscita, come noi due.

Si percepiva ora la stessa leggera emozione che aleggia in un teatro, quando si spengono le luci e si alza il sipario. E lo spettacolo incominciò, con la voce di una ragazzina che all’improvviso irruppe, potente, calda e vibrante, incredibilmente matura, sulle note di una ballata dalla melodia un po’ beatlesiana. Con lei c’era un’altra ragazzina, ma ero troppo lontana e davanti a me c’era uno con la nuca tatuata che per le dimensioni avrebbe potuto tranquillamente fare il buttafuori, così non riuscivo a capire chi delle due stesse cantando e chi suonando la chitarra.

Va detto che sono anche irrimediabilmente miope, e quella luce crepuscolare dai riflessi rosati addolciva le abituali asperità del mio stato d’animo, ma comprometteva irrimediabilmente le mie già ridotte capacità visive.

Accanto alle ragazzine c’era un folletto dai colori sgargianti, l’armadio tatuato disse alla sua compagna “vé, quello lì è Roberto con le sue bimbe”.

Dissi alla Lella: “sarà che sono lontana e c’è gente davanti, sarà che sono miope, ma da qui sembra che abbiano più o meno la stessa età”.

E poi arrivò la band, e fu musica e colori scintillanti, fu energia pura, i testi delle canzoni erano provocatori e dissacranti, l’apoteosi del nonsense venato di poesia. Il front man era come me lo ero immaginato, vitale e stralunato, sorridente ed irridente.

Io e la Lella ci guardammo e ci scappò un sorriso che non aveva bisogno di parole. Stavamo bene, semplicemente, lì e in quel momento, cogliendo l’essenza del mantra che mi ero ripetuta per anni, credendoci profondamente: carpe diem.

Qualcuno cantava, qualcuno ondeggiava, una giovane mamma danzava da sola, abbracciata al suo piccolo di pochi anni, che sorrideva beato. Al terzo pestone su una zampa, un piccolo cane si infuriò ed incominciò a roteare su se stesso abbaiando, nel tentativo di stabilire dei limiti invalicabili a tutela del suo spazio vitale.

Un altro cane di grossa taglia, prudentemente accucciato tra le gambe del suo proprietario (o almeno di colui che lo teneva al guinzaglio) lo osservava perplesso, il testone leggermente reclinato di lato.

Il tempo scorreva morbido, senza attriti, solo un po’ troppo veloce. A concerto finito, sul palco si intuiva un’atmosfera familiare e un po’ svaccata, gli ex ragazzi incominciavano a ritirare gli strumenti, ma non ancora la loro voglia di stare lì, insieme. La gente se ne andava con il passo lento e riottoso di chi non si decide ad archiviare la serata, perché potrebbe ancora succedere qualcosa, in fondo. E in realtà assaporavo lo stesso sentimento, l’irrazionale eppur solidissimo convincimento che fino all’ultimo giorno potrebbe verificarsi l’evento che cambia radicalmente lo stato delle cose. In meglio, naturalmente, poiché io sono per natura portata all’ottimismo.

All’improvviso pensai che poteva essere il momento giusto per tentare di avvicinarsi al palco e materializzarsi con un “salve, sono quella che su Twitter si nasconde dietro lo sguardo enigmatico e severo di una gatta siamese, che piacere conoscervi, magari beviamo una cosa?”.

“Lella, quasi quasi tento di andare lì per presentarmi e salutarli”.

“Sì, potresti”.

Mossi qualche passo verso il palco, poi mi fermai e guardai la mia amica. “Potresti”, aveva detto, il che implica “ma anche no”.

Guardai di nuovo il gruppetto sul palco: mi sembravano felici, potevo immaginare l’energia e l’allegria che avevano espresso quella sera come un’aura che li racchiudeva e che li avrebbe accompagnati ancora per un po’. In qualche modo, me ne sentii partecipe, e non ebbi più nulla da chiedere da quel momento, che era perfetto così. Un’altra volta, magari.

Presi a braccetto la Lella e ci avviammo pigramente verso Piazza Maggiore, dove c’era l’Hotel presso il quale avremmo pernottato. Pensai a casa, e fu con tenerezza, con orgoglio e con gratitudine.

Mi sentivo leggera, la mente lucida, ora avevo le idee chiare, ed il passo lieve di chi è sospinto dal tenace convincimento di avere ancora diverse carte da giocare.

E forse un giorno, davanti a una birra o a una tazza di caffè avrei raccontato a Lino ed anche ai MistoTerital di quanto mi fossi sentita bene quella sera del concerto del loro trentennale.

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